CroALa & LatTy: documentum

CroALa, 2024-04-29+02:00. Quaero sivrich-anacreont.xml in collectione croala.

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Traduzione latina delle Anacreontiche ... e dei sonetti, versio electronica Sivrić, Antun 1765 - 1830 Neven Jovanović Digitalno izdanje prema digitalnom faksimilu tiskanog izvornika. Mg:D Verborum 42047, 5086 versus

Rad nastao u okviru znanstvenog projekta Profil hrvatskog latinizma, (Filozofski fakultet Sveučilišta u Zagrebu, Hrvatska). Srpnja 2014.

Digitalna verzija: CroALa Sivrich, Antonio ; Metastasio, P. ; Minzoni, O. ; Pallavicini, S.B. ; Vittorelli, J. ; Savioli, L. ; Martecchini, Antonio ; di Santa Maria in Aracoeli : Biblioteca, Convento ; Sivrich, Antonio (tr.): Traduzione latina delle anacreontiche di Giacomo Vittorelli e dei sonetti scelti dello stesso scrittore, d'Onofrio Minzoni, di Pietro Metastasio, di Stefano Benedetto Pallavicini ... fatta da Antonio Sivrich di cui pur sono le poesie poste nella fine di questo libro: dove s'incontrerà tradotta altresì la seconda Anacreontica di Ludovico Savioli Fontana. Ragusa : presso Antonio Martecchini, 1803 GBS

latinski 1803 poesis prosa Litterae novissimae (1800-1850) Saeculum 19 (1801-1900) 1800-1850 poesis - epigramma poesis - versio prosa oratio - paratextus
Neven Jovanović 2014-07-20 Početak rada
Traduzione latina delle anacreontiche di Giacomo Vittorelli e dei sonetti scelti dello stesso scrittore, d' Onofrio Minzoni, di Pietro Metastasio, di Stefano Benedetto Pallavicini, di Benedetto Menzini, di Francesco Puricelli, d' Eustachio Manfredi fatta da Antonio Sivrich di cui pur sono le poesie poste nella fine di questo libro: dove s'incontrerà tradotta altresì la seconda Anacreontica di Ludovico Savioli Fontana Ragusa presso Antonio Martecchini MDCCCIII.
PREFAZIONE.

Quanto è squisito il piacere, che recano i buoni Sonetti, altrettanto è grave il tedio, che producono i difettosi. Anzi dove s’incontrano questi confusi con quelli, quel che c’è di vizioso negli uni suole infastidirci a segno, che non assaggiamo piu quel che v' è di buono negli altri. Il diletto viene distrutto per così dire dal disgusto, e la soavità rimane oppressa da un amaro veleno. Non così succedeva a Tantalo, il quale se non toccava i buoni frutti , non era obbligato almeno a mangiarne degli aspri, ed avvelenati.

Non può ben dunque concepirsi sin a qual segno sia capace d’allettarci il bello di tali componimenti, se non vengono scelti, separati, e schierati da parte i buoni; onde si vegga brillar liberamente, e svilupparsi il loro splendore, senza essere avvilito, ed offuscato dalla caligine , e dalle macchie. Per questo motivo mi sono proposto di scegliere i migliori tra quelli, che furono pubblicati in italiano . Se io sapessi sceglierli veramente bene, Giovanni de la Bruyere mi loderebbe assai; il quale disse, che choisir c’ est inventer, cioè a dire , che lo scegliere è un inventare. Comunque sia bramerei , che questa scelta potesse meritare il nome di scelta; affine di promuovere quel salubre, delicato, e prezioso piacere, che somministra la poesia , dono sublime , e generoso, che il Cielo ha saputo concedere agli uomini.

Io ammetto quei Sonetti, che sono scherzevoli , e spiritosi a guisa di certi Epigrammi , ovvero quelli, che sanno porgere una certa unzione allo spirito, e non altri. Senza una di queste due doti non mi sembra già , che possano essere di grande preggio. Questo sia detto in genere. Sarei in caso , quando occorresse, d' assegnare in particolare la ragione rispettiva, per la quale ho escluso qualsisia di quelli, che ho creduto a proposito d’escludere. Questo però formerebbe non già l’ opera , che faccio; ma bensì un altra, che io non prometto d’intraprendere. Mi piace più esercitarmi a lodare di quello che a criticare . Qui si tratta d’ impiegare una maniera la più sicura, e la più efficace per aguzzare, e svegliare quell’ appetito , che gli uomini tutti naturalmente hanno per il bello , e per il buono; ma che suole purtroppo addormentarsi, o rendersi ottuso in essi, e questa maniera consiste appunto nel raccogliere insieme, e mettere in vista questo bello, e questo buono; onde possa produrre vive impressioni; le quali da nessuna altra cosa vengono tanto disturbate, e soppresse, quanto dal brutto, e dal guasto, che faccia nell’ istesso tempo delle impressioni opposte.

Questi Sonetti saranno accompagnati dalla traduzione latina. Ho atteso a renderla fedele; ho atteso ciò non ostante a renderla tale , che tutto sembri nato dalle viscere stesse di quella lingua , nella quale traduco; ho atteso a mettere in contrasto le forze della lingua latina con quelle dell’ italiana; ed essendo immenso il bello, ed immense le sue modificazioni , ho atteso, che il mio stile nè Catulliano precisamente fosse, nè Tibulliano, nè Properziano, nè Ovidiano, ma vario, ed appropriato all’ indole varia degli argomenti, di cui tratto. Questo è stato il mio dissegno; i savi Lettori giudicheranno, se ho saputo adempirlo.

Talvolta nelle note propongo qualche cambiamento del testo; perché un sol neo è capace togliere molto del preggio ad un bel Sonetto. Ma questo io faccio, quando ho genio di farlo, ne intendo contrarre l’ obbligo di farlo sempre.

Tutta questa scelta sarà divisa in vari libretti; in fine dei quali potrà avere luogo qualche altra mia poesia. Non porteranno il titolo di tomo primo, nè secondo; giacchè intendo, che ciascuno faccia un opuscolo separato. Ma capitando che io dia altre cose in luce , darò sempre un’ indice delle cose antecedentemente stampate col mio nome.

Attualmente presento un certo numero di Sonetti ricavato da alcuni autori, che ne hanno scritto pochi. Porgo pure la traduzione delle Anacreontiche di Vittorelli , le quali tutte hanno dell’ Epigrammatico. Non avrò difficoltà d’ inserire tra i Sonetti, quando si darà l’ occasione , anche i Madrigali, o altro genere di corte composizioni. Ciascun Sonetto avrà il suo titolo , affinché l’attenzione s' impieghi tutta quanta a gustarlo, senza perdere il tempo a indagare di che tratta. Quando tal titolo sia tralasciato dall’ autore, e venga proposto da me, porterà il seguente segno. Gradisca il pubblico , e gradiscano gli amici miei la Dedica, che intendo lor fare di queste mie occupazioni.

Cinto le bionde chiome De la materna rosa Su l' alba rugiadosa Venne il fanciullo Amor: E co la dolce bocca Mi disse in aria lieta: Che fai, gentil Poeta, D' Irene lodator? Questa nevosa penna Di cigno innamorato Sul desco fortunato Io lascio in dono a te. Solo conviene a questa Di celebrare Irene: A questa sol conviene D' esprimer la tua fe.
Rorifero surgente die mea tecta subivit Parvus amor cinctus tempora pulchra rosis. Blanda voce mihi, vates, qui carmine molli Irenem celebras quid facis, inquit amor? Hanc tibi do pennam cygni exposcentis (1) amicam; Hac sola Irenem te celebrare decet.
Vegliai la notte intera Su le nojose piume. Fin che il diurno lume Si fece riveder: E mi levai che il sole Con l' inquieta sferza Guidava a l' ora terza I rapidi destrier. Per doppia febbre ardente Il tuo poeta or langue: Una m' entrò nel sangue, L' altra nel cor m' entrò Tu brameresti estinto Il foco de le vene; Ma l' altro foco, o Irene, Lo brami estinto? Ah no.
Insomnis tota vigilavi nocte, molesto Languida nec potui membra levare toro. Conspexi lucem, licuitque recedere lecto, Cum fuit a Phaebo multa peracta via. Febre agitor gemina; quam morbidus intulit aer, Viribus herbarum febris abire potest; Quam produxit amor, non est medicabilis herbis: Posset at, Irene, munere abire tuo. Tollere quam nescis, velles mihi tollere febrim; Tollere quam scires, tollere saeva negas.
Io non invidio i fiori Al molle Anacreonte: Si vaga rosa in fronte Esso non ebbe un dì. Questa non è del campo Ignobile fatica. La nostra dolce Amica Di propria man la ordì. Ne gli orti d' Amatunta, Credilo, Irene mia, Natura non avria Saputo far di più. A rosa così bella Cedano l' altre rose, Fuor che le due vezzose, Che ne le guance hai tu.
Non Tej vatis flores ego lavdo, nec ipsos Invidus exposco: nam rosa nulla caput Illius ornavit, qua non praestantior haec sit; Hanc non eduxit rustica cura rosam; Sed propriis fecit manibus mea dulcis amica; Nil melius Veneris ferre vireta queunt. Flos tamen hic roseum nescit superare colorem, Lucent, Irene, quo tibi, pulchra, genae.
Stamane per vederti, O bella Irene mia, La consueta via Mi piacque a calcar. Io raddopiava il corso A le veloci piante, E il tuo gentil sembiante Sperava contemplar. Ma non ebb' io fortuna Avventurosa e destra: La solita finestra Negommi il tuo splendor. Perchè, vedendo l' ore Al mio cammin prefisse, Perchè non te lo disse Quel cattivel d' Amor?
Tramite me solito mea pergere vota jubebant, Dum cupio Irenem mane videre meam. Speravi dulcem procurrens cernere vultum, Cernere nec potui, sors mihi laeva fuit. Spectabam cupidus solito de more fenestram; Nec sese objecit splendida forma mihi. Qua venturus eram, quid non tibi dixerat horam, Tam bene quam poterat scire, dolosus amor? (a)
Ecco di Gnido il tempio, Ecco le aurate porte: In così dubbia sorte Non voglio più languir. Tu, che amicizia, e fede Ti vanti di serbarmi, Giura su questi marmi Giura di non mentir. Ma guarda ben che il loco A i giuramenti è sacro; Che questo è il simulacro D' un nume punitor. Guarda che se il tuo core Al labbro non risponde, L' aria, la terra, e l' onde, Vendicheranno Amor.
Hic Gnidus, en sacras portas, en aurea templa; Tam dubiae sortis nolo timere vices. Has mihi amicitiam nitidas promittito ad aras, Namque tuam dicis labe carere fidem. Impune hoc nequeunt perjuria laedere templum; Hoc signum scito vindicis esse Deae. Non aer, non unda tibi, non littora parcent, Nunc si voce tua decipiatur amor.
I carmi lodatori Fille a richieder viene, Ma i carmi son d' Irene, E Fille non gli avrà. Io posso dare a lei Tenere erbette, e fiori, Ma i carmi lodatori Non posso, e Amor lo sa, Per tutte l' altre Belle Mi tace fra le dita La cetra ammutolita, E nega di cantar: Ma per la bella Irene Tosto risponder s' ode, E mille volte gode Quel nome replicar.
Phillida queis celebrem, nequicquam carmina Phillis Postulat; Irenem carmina nostra canunt. Accipiat flores, sive herbas Phillis olentes; Carmina non tradam, sit mihi testis amor. Haud alias celebrat, sed vult haec muta manere, Vel solam Irenem concelebrare chelys. Protinus Irenes laudato nomine plaudit, Jamque silere die, nocte silere negat.
Pace: su questo altare Una colomba uccido, Ardo l' incenso, e grido: Pace, cortese Amor. Pace: la bella Irene È sorda al nostro pianto. Cessi deh cessi alquanto L' indebito rigor. Tu mi ponesti a i labbri Il calice dorato, Ma un sorso avvelenato Il primo sorso fu. Ben misero e infelice Io nacqui, se mi tocca Con tanto amaro in bocca Passar la gioventù!
Parcito amor; thuris do munera, parcito clemens, Irenem fletus non tetigere mei. Has aras veneror supplex, ferioque columbam; Parce amor; immeritam comprime saevitiem. Aureus ille calix primo me perdidit haustu, Praebuit ignaro quem tua dextra mihi. Quid me vita juvat, cui tam nocet aegra juventus; Os cui tam tristis laedit amarities?
La terza notte è questa, Che il sonno, oh Dio! mi lascia, Che da l' interna ambascia Non posso respirar. L' imago di due sguardi Infidi e menzogneri Su i placidi origlieri Mi viene a funestar. So, che pietà verace Sente del mio dolore Chiunque nutre in core Sensi d' umanità: Ma, se pietà non sente La bella e cruda Irene, Che giova a le mie pene Tutta l' altrui pietà?
Deficio, vigilem me nox jam tertia cernit; Mordacem curam non levat ulla quies. Fallaces oculi me vestra fatigat imago; Et somnum molli cogit abire toro. Me luget, luctuque meo, paenisque movetur, Robore qui non est durior, et silice. Quid prodest alios nostro maerore moveri, Irenem saevam tangere dum nequeo?
Recidasi il tuo nome Da i faggi, e da gli allori. Quegli occhi traditori M' ingannano: lo so. Credevi forse, o Bella, Schernire a lungo un Vate? La lingua de le occhiate Euterpe m' insegnò. Ne le amorose scuole Discepola, e maestra Essa raffina, e addestra I giovani Cantor. Oggi per lei conosco L' arti, e le insidie appieno E veggoti nel seno Che non è mio quel cor.
Non lavrus, fagusve tuo me nomine captet; Exosas ferrum cogat abire notas. Me frustra vultu simulato, perfida, mulces; Sperabas vatem fallere posse diu. Callidus ex oculis animum cognoscere possum; Hanc artem Euterpe tradidit ipsa mihi. Quae dictavit amor, didici documenta, poetas Admonet ipsa novos, ipsa magistra docet. Te non esse meam, nequeo nescire, nefanda Jam fravs Euterpes munere tota patet.
Dischiusa è la finestra, E il Sol co' raggi lieti Indora le pareti Del sacro camerin. Me lo predisse il core, E il core non inganna: La bella mia tiranna E' risanata al fin. Svanì l' acuta febbre, E il pianto del mio ciglio. Rimosse ogni periglio, E i giusti Dei placò. Volean punir quell' alma Sì barbara e indiscreta; Ma al pianto d' un poeta Resistere chi può?
En Phoebus radiis Dominae penetralia lustrat; En splendet multa luce fenestra patens. Mens mea corde metum quamvis agitata fugabat; Plurima praedicit, plurima cernit amans. Ireni parcet morbus mens praescia dixit, En valet; haud illam febris acuta premit. Ipse meis lacrymis placavi sidera; flente Me propulsarunt cuncta pericla Dij. Saevitiem Dominae mulctabant numina; sed vim Non parvam lacrymae vatis amantis habent.
Se vedi che germoglia Ne' più silvestri dumi Al foco de' tuoi lumi O rosa, o gelsomin: Se un dolce zeffiretto Ad incontrarsi viene, E gode, o bella Irene, Di sventolarti il crin: Se rinverdisce un' erba Lungo il sentiero, e chiede Al tuo leggiadro piede Un' orma sola in don; Sappi, vezzosa Ninfa, Che per virtù d' Amore Quel zeffiro, quel fiore, E quella erbetta io son.
Si rosa, quam cernas, ridens revirescit, et halat; Sit licet hirsutis undique septa rubis; Si zephyrus gaudet ludens occurrere eunti, Et tibi si pulchram vult agitare comam; Si dum prata premis, mox herbam surgere spectas, Formoso tangi si cupit herba pede; Ludenti zephyro similem me vivere, et herbis, Meque rosae similem vivere jussit amor.
Lascia, che questo labbro, O Irene mia, lo dica: T' amo, vezzosa Amica, Quanto si possa amar.
Vera loqui, sit fas, Irenem diligo; nemo, Dulcis amica, magis diligit ex animo.
Spesso a narrare intesi, Che il vedovo poeta La tigre immansueta, Ed il leon placò:
Maerentem Orpheum saevos flexisse leones, Flexisse et tigres carmine fama refert.
Da l' invocato sonno
Jam valeo, jam membra vigent, solitoque colore,
Fingi, vezzosa Irene,
Formosam Irenes faciem levis asperet ira,
Ecco ritorna il mese
Qui vallem, et collem, camposque virescere cogit,
Seppi, che al dubbio lume
Te scio, lanigeras duxisse in prata bidentes,
Irene, siedi a l’ombra Di questo ameno faggio, E copriti dal raggio De l’infocato Sol. Ogni agnellino intanto Pascolerà tranquillo La menta ed il serpillo, Di cui verdeggia il suol. Ma leva da la fronte Il cappellin di paglia.... Chi mai, chi mai t’agguaglia In grazia ed in beltà? Gitta il cappel su l’erbe, E lasciati vedere.... Pupille così nere Venere in ciel non ha.
Irene, fagi dulces has conside ad umbras, Dum fugere infesto solis ab igne juvat. Interea teneris agni pascentur, et agnae Graminibus , quorum hic copia multa viret. Quem geris e palea, nunc tu depone galerum; Quis tibi se forma praedicet esse parem? Deposito nigros oculos ostende galero; Tam nigros oculos non habet ipsa Venus.
Lucido vago io mando
Vas tibi odorifero repletum mitto liquore
Ascolta, o infida, un sogno
Nox elapsa mihi tulerit quae somnia, dicam!
Guarda che bianca luna! Guarda che notte azzurra! Un' aura non susurra, Non tremola uno stel. L'usignuoletto solo Va dalla siepe all'orno, E sospirando intorno Chiama la sua fedel. Ella, che il sente appena, Già vien di fronda in fronda, E par che gli risponda: Non piangere: son qui. Che dolci affetti, o Irene, Che gemiti son questi! Ah! mai tu non sapesti rispondermi così!
Caeruleos caeli tractus, noctemque serenam Aspice. Quam puro candida luna nitet Lumine! nec frondes ullis agitantur ab avris; Cuncta silent; tantum flet Philomela vocans Conubii sociam, viridi dum sepe relicta Ornum adit. Ut voces audiit illa sui Conjugis, in frondes absenti e fronde propinquas Fida volat: quid fles? dicere visa fuit, En propero: o pulchrum, quem sic testantur, amorem! Quam dulces gemitus mutua flamma parit! En propero, Irene, nunquam vis dicere; amoris Ah mihi das nunquam pignora certa tui.
Siedi, mi disse Amore,
Nuper laetus amor dixit mihi, conside mecum
Aveva due canestri
Praebuit Ireni varios mea dextera flores, Caeruleo plenum flore dedit calathum; Et dedit, albenti, calathum, qui flore nitebat. 12 Quale tuus vertex non habet, alma Venus, Irene sertum componere daedala caepit, Quod fixo cupidus lumine conspiciens, O vere felix tali qui munere , dixi, Dignus erit! ridens illa nihil retulit, Spemque dedit nullam; perfecto denique serto Sertum crine geras hoc, ait, ipse tuo .
Pur t' afferrai nel collo,
O Satyre, arrepto teneo te denique collo; Non rapiet nostris te fuga de manibus . Haec te mulctabit fustis, tibi donec ab armo Prosiliat sanguis. Carpere tene meos Conspexi lauta pendentes vite racemos Ungue fero? Has uvas, o scelerate, scias Ireni placuisse meae, cui tradere dono Has uvas uni me voluisse, scias. Incassum timida purgas te voce; furorem, Quo semel exarsit , ponere nescit amans.
La vidi (oh che portento!
O genus eximium pulchri, mirumque decorem! Glauca chlamys corpus picta tegebat acu. O Venus, hanc spectans ego te spectare videbar: Candidior gemma, vividiorque rosis Illa fuit . Quasdam voces mihi protulìt: ah mens Has nunquam posset non meminisse mea . Sed carui sensu, voces ut protulit, aeger Mox cecidi , nec vim non rapiebat amor. 13 Num dulces fuerint voces, quas protulit, aurae, Dicite, num dulces, dicite, non fuerint? At mea damna nimis timeo; si grata fuissent, Mulcerent animum nunc quoque verba meum.
Zitto. Que' due labbrucci, Che vagliono un tesoro, Finissimo lavoro De l’ Acidalia man , Veggoli un tratto aprirsi In armonia celeste . Ecco di gioia agreste Ridono i colli e il pian. L’ aura non move fronda; L’erbe si fan più verdi... Oh, Amore , oh quanto perdi A non ferire un cor! Se quella rosea bocca Fosse a i sospiri avvezza, Chi mai con più dolcezza Si lagneria d' amor?
Quae propria Venus alma manu formasse videtur E labijs cantus aethereos referens Vox exit; nemo nunc hiscat; gaudia colles, Haec vox dum resonat, prata, nemusque beant. Mobilis avra silet, revirescunt gramina: quid non Premere de pharetra tela, Cupido , libet? Quae mora te cohibet? Feriant tua tela canentem; Quid cessas? Feriant, praemia magna feres. 14 Ducere si roseo suspiria disceret ore, Ducere quam dulci disceret illa sono!
I primi fior son questi Del Maggio, che ritorna. Prendili , e te ne adorna , Ninfa gentile , il sen. Io sempre a’ Dei del bosco Gli offriva in Primavera, Ma Irene allor non era L’ idolo di Filen. No, non temer che i Fauni , Privi del dono usato , Con brutto ceffo irato Ti facciano terror. Io so che il bosco è pieno D’ insidiosi Numi; Ma So che ne' tuoi lumi Abita un Dio maggior.
Hos flores majus primos mihi protulit; his tu Cinge tibi pulchras, nympha venusta, comas. Numinibus nemoris flores donare solebam Vere novo; sumat, quae mea Diva nova est, Hoc donum Irene. Quibus annua dona negavi, Non cibi Faunorum turba proterva metum Iniiciat. Tu sperne minas, informiaque ora, Intuitusque feros. Numina multa nemus Insidiosa tegit: divi sed gratia vultus Ostendit, numen majus inesse tibi.
Non t' accostare a l' Urna, Che l' ossa mie rinserra, Questa pietosa terra E' sacra al mio dolor. Odio gli affani tuoi: Ricuso i tuoi giacinti. Che giovano a gli estinti Due lagrime, o due fior? Empia! Dovevi allora Porger mi un fil d’ aita Quando traea la vita In braccio de i sospir. A che d’ inutil pianto assordi la foresta? Rispetta un’ Ombra mesta E lasciala dormir.
Haec pia terra, meum te non stimulare dolorem, Terra tegens gelidi corporis ossa jubet. Huc nunquam accedas . Hyacinthos ipse recuso, Quos mihi fers, lacrymas ipse recuso tuas. Non flore, aut lacrymis exanguia membra juvantur; Quid modico tumulum spargere flore cupis? Quid paucis opus est lacrymis? Dum flere videbas, Impia, me vivum, debueras aliquam Tradere opem vivo; mutos requiescere manes In tumulo liceat; sollicitare meos Fas cineres, fas haec turbare silentia non est: Sylva silens somnos det mihi posse sequi.
Il cagnolin vezzoso
Formosam catulus liquit formosus amicam;
O Platano felice,
O felix, quotquot conspexi surgere in auras,
Tacete, o versi miei,
Carmina conticeant, nil carmina posse, fatemur;
A Dori, che prende le acque di Recoaro. Canzonetta. Or che le medich' acque
Nunc medica Doris lympha recreatur. Amores
A Dori, che prendendo le acque andò al passeggio, e fu sorpresa dal vento. Canzonetta. Dunque Costei non bada
Sic medico jussu neglecto deseris aedem,
A Dori risanata dopo le acque. Canzonetta. Su l' ara d' Esculapio
Nunc gemina Phoebi donetur turture natus:
A Nice in villa, perchè si renda alla Città. Canzonetta Bianchieggia il piano, e il monte
Albescunt montes, albescunt prata pruinis;
SCELTA DEI SONETTI.
Di Giacomo Vittorelli
Essendo eletto canonico arciprete di Bassano il signor Abate Golini, il quale da Gesuita educò l' Autore in Brescia. Questa, che l' aure molce, e per cui sono Tra cantori Febei cantor non vile; Questa, che a me risponde in vario stile Aurea cetra, o Golin, questa è tuo dono. Tu m' insegnasti a ricercarne il suono De gli anni miei sul giovinetto aprile, Ed or che a te si affida il patrio ovile, Di festosi amaranti io la incorono. Oh me beato, se quest' alma impetra, Tolto ogni neo, che il suo candore appanna, Di seguir i tuoi passi infino a l' etra! Ore, gustando teco ambrosia, e manna, Tu darai nuove corde a la mia cetra, E la mia cetra a Dio novelli Osanna.
Qua vates inter numeror non ultimus, auras Quae mulcet, varios quae mihi pulchra sonos, Dat cithara, est munus, mihi quod, Goline dedisti; Praebebas juveni tu documenta mihi; Tu me vocali cithara resonare docebas: Hanc mihi nunc vivax, hanc amaranthus olens Nunc mihi circumdet; dum te sibi patria poscit Pastorem, et proprium credit ovile tibi. Demptis, quae poterant animi fuscare nitorem, Si dabitur maculis te super astra sequi; O me felicem! quae tunc ego gaudia carpam! Tecum ego gustabo nectar, et ambrosiam. Tu mihi tunc citharae chordas renovabis; et hymnos Caelicolum Regi porriget illa novos.
L' Autore a Bassano sua Patria Che fiume è questo di bei colli adorno, E di gran ponte, che raffrena l' onde, Su le cui vaghe ed onorate sponde Jacopo nacque, e Ferracino un giorno? Che gente è questa, a cui più liete intorno Ridono le campagne, e più feconde; Ove il commercio animator diffonde L' operoso suo genio, e vuota il corno? Che cielo è questo, in cui vapor non sale Tetro, maligno; e in cui su lievi piume Trascorre dolcemente aura vitale? Quante grazie ti rendo, amico nume, Che pietoso segnasti al mio natale Questo ciel, questa gente, e questo fiume.
O Flumen pulchris ornatum collibus, arcu Cui pons ingenti claudere non dat iter; 19 Cujus Jacobo, Ferracinoque venusta Natalem dederat ripa videre diem! O pia Gens, fructus cui terra ministrat opimos, Ad quam tot merces gens peregrina trahit; Tam varias pleno merces cui copia cornu Suppeditat, sibi quas gens peregrina petit! O Aether, nos qui mulces vitalibus auris, Cui pravi labes nulla vaporis inest! O Gens, o Aether, flumenque, o grandia dona, 20 Quae mihi, quae Patriae Di tribuere meae! 21
All' applauditissimo Sign. Ab. Parise, che andava a predicare in Roma. Vedrai, Parise, i lidi Tiberini Di sculte logge, e di gran tempi onusti, Albergo già de' fortunati Augusti, E de' guerrieri cavalier Latini. Vedrai cento famosi e peregrini Monumenti de' secoli vetusti; Le colonne, le terme, e i sacri busti De' Pompei, de gli Scauri, e de Flamini, E se l' aspro involò destin nemico Le reliquie del foro, ove sì spesso Tullio convinse il reo, salvò l' amico; D' accusare il destin non t' è permesso, Poichè de i rostri, e de lo stile antico La reliquia miglior vive in te stesso.
Atria, caesareas aulas, et splendida tecta, Quae Latii veteres incoluere Duces, Templaque, Parisis, praeclari Tibris ad undam, Caeteraque antiquae tot monumenta stupens Aspicies Romae, Thermas, simulacra, columnas; Jam tibi Pompejus, jam tibi Scavrus erit, Jam tibi spectandus celeber Flaminius. Aevo Sed si relliquiae disperiere fori, Egregium Ciceronis ubi servavit amicos, Criminaque objecit sontibus eloquium; Ne doleas: periit rostrum, facundia prisci, Vox tua dum superest, temporis haud periit.
Sonetto Pastorale. Ora che teco in su l' erboso letto Di questo ameno e rustico pendio Sediamo, o pastorella, Alcone ed io, Mentre pascola il gregge entro al boschetto; Tu, che inesperta non conosci affetto, Odi, tenera Nice, il parlar mio. Due pastori or contempli, e un sol desio Pensi che l' uno e l' altro accolga in petto. Io miro il tuo bel labbro, e le tue chiome, Nè cangio volto, nè mi batte il core; E questa, o Nice, indifferenza ha nome. Or volgiti ad Alcon. Guarda il rossore, Che tutto lo invermiglia. Osserva come Palpita nel mirarti: e quello è amore.
In colle herboso tecum consedimus Alcon, Atque ego, dum viridi grex manet in nemore. Quae loquar, avdito: mollis te decipit aetas; (22) Nos curam hic tantum credis habere gregis. (23) Non ego amo, vultu tranquillo, candida Virgo, Os qui formosum cerno, tuamque comam. Prospice at Alconem, dum te videt ipse, rubescit; Ipse amat; insolitus dat tibi signa rubor. (24)
Di Onofrio Minzoni.
Per Monaca. Stolti stolti, fuggite: è giunta ormai La saggia Verginella all' ara innante; Entro un mischio di nuvole e di rai Per man la tiene il suo celeste Amante. Stuol d' Angeletti intorno a quel sembiante E guizza, e vola, nè riposo ha mai Chi l' umil fronte, chi le luci sante, Chi gli atti ammira onestamente gai. Già sovra l' ali un se ne scrisse il nome, Un di fiori l' ha sparsa, ed un le ha tolti I ricchi panni, e le increspate chiome. Qual di bende la copre in cielo ordite, Qual arpeggia, qual canta, e dice: stolti, Qui sol regna virtù, stolti, fuggite.
Eja agite, amentes, templum vitate, profani; Accessit sapiens virgo dicanda Deo. Nubibus, et radiis cinctam caelestis amator (25) Hanc tenet ipse manu, caelicolumque chorus Exultat volitans, et vultum virginis ambit: Laetitiam illius, laetitiaeque decus Virgineum laudant; frontem probat ille modestam, Hic mites oculos, purpureasque genas; Ille sibi pennas praeclaro nomine signet Virginis; hic multos in caput, inque sinum Demittit flores; alius vestemque superbam, Cincinnosque leves, (26) caesariemque manu Subducit celeri. Delatis aethere vittis Circumdat sacrum virginis ille caput; (27) Exulat hinc vitium, virtus hic candida regnat; Accessit sapiens virgo dicanda Deo; Eia agite, amentes, templum vitate, profani, Quidam ait; hic cithara personat; ille canit.
Essendo scelto a Protettore Degli argonauti di Ferrara il Cardinale Marcello Crescenzi. Pianta che presso le tessalic' onde Spiegasti in prima le ramose braccia, E tratta poscia alle Romulee sponde L' aria segnasti di odorosa traccia; S' egli avverrà, che dell' eterne fronde Onorato sudor degno mi faccia, Da quel tuo nume, che le chiome ha bionde, No, non le voglio, ed ei sel oda, e taccia, Sulla ripa real dell' Eridano Siede Marcel, che le virtù divine Tutte dimostra nel sembiante umano. Egli la cetra mi sospende al collo, Egli di lauro fregerammi il crine, Mio non bugiardo, e non profano Apollo.
Thessalicas primum quae ramos arbor ad undas Umbriferis laetos frondibus extuleras, Quae ducta ad ripas Romani Tibris odore Signasti longas advena grata vias; Aeternam capiti nostro si forte coronam Te cogat noster suppeditare labor; Non hanc ille Deus, flavam qui fertur habere Caesariem, nobis praebeat; ille tuus Audiat haec, abeatque Deus. Marcellus, amico Numine qui ripas protegit Eridani, Quem divina virum virtus exornat, et almo Qui monstrat vultu numen inesse sibi, Tradidit hanc citharam, lavrum concedat et ipse; Nec lavrum tribuat vanus Apollo mihi.
Sullo stesso argomento avendo già ricevuto l' Autore dallo stesso Cardinale la Tonsura e gli Ordini. La sacra man, che mi recise il crine, E trastullo dell' aure il crin divenne, Quella, che poi sulle mie tempie inchine Con gran mistero aperta s' intertenne; Dessa pur è, che la mia cetra alfine Arma di corde, e 'l dosso mio di penne Use a posarsi o sulle vette alpine, O sulla punta dell' eccelse antenne. Or dove sei tu, che riprendi il suono, Che dolce io traggo dalle fila aurate, Ed al franco mio vol neghi perdono? Deh! cessa ormai dalle rampogne usate, E riconosci infin, come non sono Contrari nomi Sacerdote e Vate.
Sacra manus, crinem levibus quae tradidit avris, De nostro sectus vertice qui cecidit: Grandia quae referens mysteria rite patebat Devotum Superis hoc super alma caput; Ipsa dat hanc citharam nobis, alasque ministrat, Queis juga praecelsi montis adire licet; Antennasque cito raptas attingere fluctu. (28) Quid mihi jam censor criminis obiicies; Qui lenem rigidus cantum, citharamque solebas Auratam, et velox arguere ingenium? Ah sapias, vatem dictis ah laedere parcas: An sacrum vates munus obire nequit?
Essendo scelto a Protettore Degli argonauti di Ferrara il Cardinale Marcello Crescenzi. Pianta che presso le tessalic' onde Spiegasti in prima le ramose braccia, E tratta poscia alle Romulee sponde L' aria segnasti di odorosa traccia; S' egli avverrà, che dell' eterne fronde Onorato sudor degno mi faccia, Da quel tuo nume, che le chiome ha bionde, No, non le voglio, ed ei sel oda, e taccia, Sulla ripa real dell' Eridano Siede Marcel, che le virtù divine Tutte dimostra nel sembiante umano. Egli la cetra mi sospende al collo, Egli di lauro fregerammi il crine, Mio non bugiardo, e non profano Apollo.
Thessalicas primum quae ramos arbor ad undas Umbriferis laetos frondibus extuleras, Quae ducta ad ripas Romani Tibris odore Signasti longas advena grata vias; Aeternam capiti nostro si forte coronam Te cogat noster suppeditare labor; Non hanc ille Deus, flavam qui fertur habere Caesariem, nobis praebeat; ille tuus Audiat haec, abeatque Deus. Marcellus, amico Numine qui ripas protegit Eridani, Quem divina virum virtus exornat, et almo Qui monstrat vultu numen inesse sibi, Tradidit hanc citharam, lavrum concedat et ipse; Nec lavrum tribuat vanus Apollo mihi.
Essendo scelto a Prottetore de' Fluttuanti d' Argenta il Cardinale Corsini si allude all' Insegna e alle vicende dell' Accademia. Nave, che fra l' orror di lampi e tuoni Finor dolente e sconosciuta andasti, Se pur non ti conobbero i Tritoni, Che spesso mezzo naufraga invocasti, Orsù restaura gli albori e i timoni, Che teco porti inonorati e guasti, Insulta i minaccevoli aquiloni, Da cui più volte in van tregua implorasti, Ecco apparisce, ecco le spume indora L' Astro benigno: gli susurra accanto La più tranquilla favorevol Ora. Lieti potranno i tuoi nocchieri intanto Sulla poppa sdraiarsi o sulla prora, E Ninfe e Glauchi innamorar col canto.
Quas petere optabas, ripis incognita navis, Cui turbata maris fecerat unda metum; Cognita quae solis dudum Dis aequoris ibas, Quos precibus iam iam naufraga saepe tuis Excieras: ignes caeli, tenebrasque timentem Quam nova zona poli, saevaque pressit hyems, Despice adhuc nunquam mites, nunc despice ventos, Nunc mali, nunc sunt vela novanda tibi. (29) Jam nihil extimeas, quae te laesere, procellas, Auratam lucem stella benigna parit. Tempus adest aletum, dulci strepit avra susurro; Festivo signum grata dat hora pede. Nunc felix ito: stratus nunc navita vocis Mulcebit Glaucum Nereidasque sono.
Essendo scelto a Protettore Degli argonauti di Ferrara il Cardinale Marcello Crescenzi. Pianta che presso le tessalic' onde Spiegasti in prima le ramose braccia, E tratta poscia alle Romulee sponde L' aria segnasti di odorosa traccia; S' egli avverrà, che dell' eterne fronde Onorato sudor degno mi faccia, Da quel tuo nume, che le chiome ha bionde, No, non le voglio, ed ei sel oda, e taccia, Sulla ripa real dell' Eridano Siede Marcel, che le virtù divine Tutte dimostra nel sembiante umano. Egli la cetra mi sospende al collo, Egli di lauro fregerammi il crine, Mio non bugiardo, e non profano Apollo.
Thessalicas primum quae ramos arbor ad undas Umbriferis laetos frondibus extuleras, Quae ducta ad ripas Romani Tibris odore Signasti longas advena grata vias; Aeternam capiti nostro si forte coronam Te cogat noster suppeditare labor; Non hanc ille Deus, flavam qui fertur habere Caesariem, nobis praebeat; ille tuus Audiat haec, abeatque Deus. Marcellus, amico Numine qui ripas protegit Eridani, Quem divina virum virtus exornat, et almo Qui monstrat vultu numen inesse sibi, Tradidit hanc citharam, lavrum concedat et ipse; Nec lavrum tribuat vanus Apollo mihi.
Essendo eletto dal Popolo in Venezia un novello Piovano che fuor dell' usato non ebbe verun competitore. Greggia, che di custode orba sen resta, Ove sparger dovria lacrime amare, Bolle sovente, romoreggia, e desta Entro il bosco natio fervido gare. O sacra verga, o maestosa vesta, A troppi ingordi, oimì, siete voi care! Ed a partirsi in duo la turba è presta, Qual gonfio flutto in tempestoso mare. Ond' è pertanto, che te solo or chiede A suo duce, o Signor, la greggia intera E che niun teco gareggiar si vede? Ah! troppo il tuo l' altrui valore eccede: Egli tutti inamora, o li dispera, E lieto, o taciturno ognun gli cede.
Grex quam saepe sui custodis funus acerbum Non ita sollicitis prossequitur lacrymis, Ut lites abeant! sed certat garrula sylvam Vox turbans, et pax deserit alma gregem. Sacra fames multos pastoris poscere virgam Dum cogit, tumidum turba agitata refert Aequor, et impatiens studia in contraria fertur. Cur sibi grex totus te cupit esse ducem? Quid tibi tam pulcrum nemo contendit honorem? Se tibi non aliquis judicat esse parem. Quisque silens haeret, laetusque obtemperat; ac te Sive amat, aut vinci te potuisse negat.
Di Pietro Metastasio
Sulla vanità della vita umana. Sogni, e favole io fingo: e pure in carte, Mentre favole, e sogni orno, e disegno, In lor, folle ch' io son! prendo tal parte, Deh del mal, che inventai, piango, e mi sdegno. Ma forse, allor che non m' inganna l' arte, Più saggio io sono? E l' agitato ingegno Forse allor più tranquillo? O forse parte Da più salda cagion l' amor, lo sdegno? Ah che non sol quelle, ch' io canto, o scrivo, Favole son, ma quanto temo, o spero Tutto è menzogna, e delirando io vivo! Sogno della mia vita è il corso intero. Deh, tu, Signor, quando a destarmi arrivo, Fa, ch' io trovi riposo in sen del vero.
Scribere quae soleo quid sunt nisi somnia? tangunt Me tamen, ac iram subdola saepe mihi, Saepe ciet largos, quam finxi, fabula fletus: At vanis dum non decipior numeris, Sumne magis sapiens? num mens tunc laeta quiescit? Num non stultus amor, caeca nec ira mea est? Non tantum fallit scribentem fabula vatem; Mortales fallit quidquid in orbe vident. Quid menti mea vita meae nisi somnia profert? Illudit quidquid spemve, metumve movet. Hos mihi post somnos frontem dent sidera veri Cernere; tunc sapiens, tunc ego laetus ero.
Per Monaca. Onda, che senza legge il corso affretta, Benchè limpida nasca in erta balza, S’ intorbida per via, perdesi , o balza In cupa valle a ristagnar negletta. Ma se in chiuso canal geme ristretta , Prende vigor, mentre se stessa incalza; Al fin libera in fronte al Ciel s’inalza , E varia, e vaga i riguardanti alletta . Ah quell’ onda son io, che mal sicura Dal raggio ardente , o dall’ acuto gelo, Lenta impaluda in questa valle oscura. Tu , che saggia t’ avvolgi in sacro velo, Quell’ onda sei, che cristallina , e pura Scorre le vie, per cui si poggia al cielo.
Quae ripis fluit unda carens, sit limpida quamvis, Et celso montis vertice prosiliat , Disperit huc illuc migrans turbata; vel, imam Dum cadit in vallem, carpere nescit iter. Sed qua per tutum prolabitur unda canalem, It celeri cursu , vimque dat ipsa sibi; Fluctibus urgentur fluctus , quos cernere suave est; Et grato migrans obstrepit illa sono; Nunc flexo ludens, nunc recto tramite pergit; Nec cessat caelo liberiore frui. Hic mea languescit virtus, fluvioque videtur Consimilis , quem pars infima vallis habet; Quem sol exsiccat, quem stringunt frigora; sed te , Dum tua sacrato vellere membra tegis, Nobilis unda refert , caeli quae surgit ad auras; Sic tu felici tendis ad astra via.
Per Monaca , ovvero per qualche illustre persona amante del ritiro. Questo fiume real, che le bell' onde Da illustre derivò limpida vena, Non scorre aperti campi, o valle amena, Ma fra concavi sassi il corso asconde. Così non teme il Sol, se i rai diffonde, E fa dell' ampia Libia arder l'arena; Nè l'intorbida mai turgida piena Di sciolto gel , che le campagne inonde. E pago d' esser sì tranquillo, e puro, Ogn' aprico sentier posto in oblio, Va sol noto a se stesso , agli altri oscuro; Spiegando col sommesso mormorio, Che ad unirsi egli va lieto, e sicuro All' immenso Oceano, onde partìo.
Nobilis hic fluvius placida pulcherimus unda, Qui fluit illimi fulgidus e scatebra, Non rure aprico, non vallibus errat amaenis; Occultant queis it concava saxa vias; Nec metuit solem, radiis dum jugera findit, Et Libyae (32) vastos fervidus urit agros; Nec timet ille nivem praerupto in monte solutam, Quae ruat, et rapidis praedia inundet aquis. Dummodo nil turbet cursum, nihil inquinet undam, Progreditur soli cognitus ipse sibi. Tectus it, at resonat festivo murmure, et inquit Aequora, queis abii, rursus adire licet.
Per una dimostrazione anatomica . Illustre mano a esaminare eletta La spoglia , onde superbo è il nostro niente , Qual di te man più fida, e più perfecta L' orme seguì, che le segnò la mente? Vedete come il breve acciar lucente Nelle latebre più riposte affretta , Dove la morte sqallida , e dolente L' amaro dì del suo trionfo aspetta. Ah se m' additi, quanto il nodo è frale , A cui s' attiene il fin de' giorni miei, Il cor m' ingombri di terror mortale! Ma quel che puoi, se mostri, e quel, che sei, Veggo, che al fato il tuo saper prevale, E acquisto più valor, che non perdei.
O quae scis partes humani corporis, et quae Vincla ligant partes dinumerare manus; Mira licet fragilis nos haec structura superbos Efficit; haec nobis nota fit artis ope, Quam tibi mens acris dictat. Quis calluit artem Hanc melius? Quisnam tam bene quae latitant , Eruit, et cultro solers evolvit acuto? Rimari latebras tam bene quis potuit Sepositas , queis mors celatur lurida , donec Approperet moesti funeris atra dies, Qua tandem exultet victrix? Ostendere si vis, Vita fluens nodo pendeat ut fragili, Me trepidare facis; vim contra mortis acerbam Quid tua vis valeat , pandere si libeat , Spes oritur, vincitque metum; sapientia praestat Vim tibi , quae mortis vim superare queat.
Di Stefano Benedetto Pallavicini
Per la Accademia delle bell' arti in Roma. Al braccio di colui, che tutto doma Ove la falce mietitrice inarchi, Ceduto, è veto, an le memorie, e gli archi Pochi degli anni a sostener la soma; Nè per l' ampie tue vie rasi la chioma, E di catene, e di vergogna carchi, Nè trascinati i Barbari Monarchi Dietro a' Consoli tuoi più vedi, o Roma. Pure agli onori, e alle vittorie nata, Per farti eterna alle innocenti, e belle Arti, che nudri in sen, possanza è data; E in produr maraviglie ognor novelle Qual già del Mondo trionfasti armata, Così del Tempo oggi trionfi imbelle
Tempus edax, avido quod deterit omnia dente, Resque secat victor praelia falce gerens, 33 Roma potens, monumenta tibi raptavit, et arcus Diruit, illorum nec timuit numerum. Haud nunc barbaricos detonso crine triumphans Pergere per plateas, compita perque vides Edomitos bello reges, vinclisque gravatos; Nec consul victos it tuus ante duces. 34 Aeternam sed nunc pulchrae, quas excolis, artes Te faciunt, sic tu saecula longa domas. Olim enses poterant totam tibi subdere terram; Aevum enses duri vincere non poterant.
Sull‘ indole vitrosa di Fille. Pronta a spuntar le mattutine squille , Salutavano l' alba, e di letea Rugiada sparse un lieve sonno avea Le mie di lacrimar stanche pupille. Nè dormia già , che in mille guisa, e mille Deste nella mia mente Amor tenea Le immagini del giorno; e mi parea Di trovarmi per anche a piè di Fille Piaceami sì, che con sospiri accesi A' suoi vaghi rivolto occhi omicidi, Qualche del mio servir mercè le chiesi. Nascer a un tratto in lei pietade io vidi; Usò dolci parole, atti cortesi , E ch' un sogno era il mio, da ciò m' avvidi.
Nocte abeunte (36) levis clausit mea lumina somnus , Languida quae multis torpuerant lacrymis. Subrepens pingebat amor (37) mihi plurima, queis me Tangebat vigilem: Phillida visus eram Cernere suspirans, et longi praemia poscens Obsequii; tristem ponere saevitiem; Arridere (38) mihi Phillis, neque temnere amantem Et blandas voces promere visa fuit. Indicio hoc novi mihi somnum illudere; somno Gaudia mox pulso disperiere mea.
Di Benedetto Menzini
Pittura. Tolse all' Aurora i suoi purpurei fiori, E il lor Zaffiro alle celesti rote, L' oro de' crini al Sole, e alle remote Cimmerie grotte i lor noturni orrori. Tenebre, e viva luce, ombre, e fulgori Indi temprò con arti a se ben note; E sù tela erudita, ancorchè immote Le immagini ebber moto, atti, e colori. Alto stupore i riguardanti impiglia, E intente alla si nobile fattura Giove infin di lassù china le ciglia. Tal con umana industriosa cura, L' arte divenne amabil meraviglia; E d' esser vinta s' allegrò Natura.
Splendorem rapuit stellis, avrique colorem, Et soli radios, purpureumque decus Aurorae vigili, latebrisque ars pulchra tenebras Cimmeriis rapuit: candida lux tenebras, Ac tenebrae nimium lucis cohibere vigorem Dum certant, vitam subdola imago trahit (39) Res varias pingens, aptisque coloribus aevi Facta refert nostri, facta vetusta refert, (40) Et quaecumque vident homines, motumque videtur, Et muta voces exprimere in tabula. Haerent attoniti, spectant qui talia, spectans Talia de caelo Jupiter ipse stupet. Egregiam, natura potens cui cedere gaudet, Hanc artem solers protulit ingenium.
Architettura . Io che le genti dissipate, e sparte Raccolsi in lieti alberghi, e da selvose Spelonche, e da montagne aspre e sassose Le richiamai d' ozio civile a parte; Io poi ben mille incontro al fiero Marte Alzai ripari, e per le vie spumose Le sonanti del Mare onde orgogliose Rispinsi indietro, e le domai per arte. Vada or Gradivo, e la sua face avventi, E Nettuno di nembi, e d’ ira pregno All' orrida congiura inviti i venti. Schernir la forza, e disprezzar lo sdegno Vedrem dei numi in terra, e in mar possenti E in alta Rocca torreggiar l’ingegno.
Hirsutam, gentemque vagam juga celsa colentem, Et nemora , et valles, antraque magnificis Excepi hospitiis, civiliaque otia jussi Ducere, et extruxi maenia , quae validam Frangere vim Martis valeant, et valla locavi, Et docui saevo ponere frena mari; Spumantique via docui procedere pinum, Vela tument, rostro scissa dat unda locum. Mars ignem accendat belli, gravis ira, furorque Neptuni ventos concitet , ipsa Deos Arte coercebo terra , pelagoque potentes; Arte mea fluctus arx premet alta maris.
Di Francesco Puricelli.
Per Monaca chiamata come pare, Giuditta. Questa in tenera età forte Donzella, C' oggi del Mondo trionfar si vede E d' umil Chiostro a solitaria cella, Mover con presti passi ardito il piede, Di Betulia mi par la Vedovella, O del suo nome, e di sua gloria erede, Quando, compiuta l' opra illustre, e bella, Tornava lieta a la paterna sede. Ma quella per dar morte al suo Nemico Abbandonò la mesta usata spoglia; E ornò di gemme il crine, e il sen pudico. Questa lo vince allor, quando s' invoglia Di vestir rozze lane, e in Chiostro amico D' ogni terrena vanità si spoglia.
Te, de fallaci quae daemone (54) laeta triumphas, Et loca sollicito quae pede sacra subis, Te victrix sua tecta petens fortissima Judith (55) Hoste trucidato, clara puella, refert. Illius aequiparat tua virtus inclita laudes; Jure tibi nomen tradidit illa suum. At crinem ornarat gemmis, pectusque pudicum, Et sese nitidis vestibus induerat; Signaque perpetui moeroris nulla gerebat, Infandum ut ferro scinderet illa caput. Hostem dum vincis, te contegit hispida vestis, Et quae decipiunt gaudia cuncta fugis.
Femmina, che si vanta di saper innamorare, ed altro non sa che innamorarsi. Lucrina di se stessa ognor favella , E vanta i pregi suoi più, che non lice , Con dir che sola tra le Ninfe è bella, Qual sola tra gli augelli è la Fenice; Che splende al par de l' amorosa stella, E de la chioma in Ciel di Berenice; Che strali avvegrta in questa parte, e in quella; Ma ciò, tranne lei sola, altri nol dice: Che al sol girar di sue pupille accorte Fra mille affanni, e dolorosi omei Già condotto à più d' un vicino a morte. Io rido in ascoltarla; e giurarei, Ch’ ella vaneggia, e che l’amor si forte, Che va in altri sognando, è tutto in lei.
Garrula vult nunquam de se Lucrina silere; Dat laudis , quantum non licet, ipsa sibi; Et nymphas inter pulchram se judicat unam; Unica sic Phoenix dicitur inter aves. Ut Veneris fulget formosum sidus in axe , Vel Beronicei (58) verticis alma coma , Sic ait eniteo: quo pergo tramite, amoris Excipiens telum plurima turba gemit. Illi sed nemo vult hanc concedere laudem. Se, dicit, multos , ipsa, dedisse neci; Sola tamen dicit; se flammis urere (59) dicit, Quem semel arguto, (60) viderit intuitu. Quam digna est risu! nullos inspirat amores; lpsa tamen diro saucia amore perit. (61)
Sogno di Femmina , che non si tiene troppo lontana dagli uomini. Lilla mi disse un di: che fatto avea Un sogno stravagante oltre misura; Esser tutta di vetro le parea, E gli Uomini di sasso aver figura. E mentre in sogno un tal pensier volgea, Ogn’ incontro fugia con somma cura, Nè che se gli appressasse alcun volea, Che di cadere infranta avea paura. Anzi desta di poi gran pena ancora D' un tal sogno le fea l' immagin vana; Io sorridendo le risposi allora: O buon per te, se vision si strana Ancor vegliando ti durasse ogn' ora; Che staresti dagli Uomini lontana.
Sic, dum commemorat, quae somnia Morpheus illi Subdolus attulerit, Lilla loquuta mihi est: E fragili vitro constans mihi tota videbar; Constantes saxo rebar adesse viros . Diffringi metuens nolebam tangere quemquam; Nunc quoque vix tanto libera vivo metu. (62) Subridens retuli: vigilem Di talia cogant Credere te , cupias ut procul esse viris.
I travagli d’ Orfeo in grazia della Moglie. Poichè tolse ad Orfeo l’ invida Parca La diletta Euridice, egli non teme Por il pie negli abissi, e gire insieme Con l’ ombre ignude ne la stigia barca . Del rigido nocchier, che il ciglio inarca Al nuovo pondo, e alto minaccia, e freme , Tempra l’ ire coi carmi, e pien di speme Tocca la cetra; e il negro fiume ei varca. E sceso di Cocito a l’altra riva Scorre le piagge de l’eterno pianto , Finché di Pluto a la magione arriva. Ivi Cerbero placa , indi col canto Ottien, che torni la sua Donna viva, Per una Moglie chi faria mai tanto?
Non Orci timuit fauces Orpheus adire , Quam subit umbrarum turba , subire ratem Non timuit, manes postquam descendere ad imos Mors fera dilectam jusserat Eurydicen. Insolito pressam cernit dum pondere cymbam Nauta ferox tollit triste supercilium; Et minitans multis implet clamoribus auras, Carmina sed rigidum continuare senem; Plurima continuit citharae vis. Flumine vates Iam vehitur nigro; littora maesta (63) premit: Muneribusque canem latrantem flectit, et audax Regia tecta petens postulat Euridicen . Euridicen domitus cantu rex tradidit illi, Quisnam adeo cupidus coniugis esse velit?
Amore obbligato a ferire con nuovi dardi. Stanco di saettare Amore un dì Sul margine d' un rio si riposò, E per qualche ragion, che dir non sò, Amor , che veglia sempre, allor dormì. E mentre cheto egli dormia così, Una Vecchia bruttissima passò , Chiamata l’Avarizia, e a lui cangiò L' arco, e gli strali d’oro, e poi fuggì. S' avvide Amor, quando svegliato fù, Che quell’ armi tremende più non à: Che di piagar i Numi avean virtù. Disperato ne piange; e d’ indi in qua Amor non è più Amor , nè fere più, O sol con l’ armi d’ Avarizia il fa.
Fuderat immitis quamplurima tela Cupido; Sed somno tandem languida membra dedit Fluminis in ripa fessus. Foedissima vultu Tunc vetula accessit nomine avarities; Et rapuit fugiens auro fulgentia quotquot Tela tenebat amor , cui nova tela dedit. Ut puer evigilans novit procul esse sagittas, Vindicibus crebro quae nocuere Diis, Perditus incassum flevit; nunc laedere nescit; Vel tantum telis laedit avaritiae.
Sonetti pastorali
Sul merito della costanza. Tu stupisci, Euristeo, perchè tra tanti Arbor diversi, che ne diê Pomona, Il Nespol tardo di produr si vanti Suoi frutti adorni di regal corona? Questo, se al Sole, o a quell' aspetto il pianti, D' onde i freddi Aquiloni Eolo sprigiona, O in terren secco, o pur tra le stagnanti Acque, il natìo vigor non abbandona. Del Giardinier non chiede industre cura, E a l' inguiurie de tempi il forte legno Nutre i suoi pomi, e la corteccia indura. Tal, chi d' avverso Ciel soffre lo sdegno, Nè virtù perde, e i bei pensier matura, Quegli è l' Uom saggio, e di corona è degno.
Plantarum ex numero magno, quas terra ministrat, Eurysthee, stupes, mespilus alma suis Quidnam serta paret seris gratissima pomis? Haec tempestatum temnere saevitiem Planta scit, illius didicit durescere cortex; Nil a sole sibi, nil timet a pluviis. (66) Illa paludosas inter non disperit undas, Littora non illam sicca perire vident. Non metuit boream, non frigora, sponte virescit; Agricolae curam nec nimis illa petit. Sic dubiae sortis qui scit tolerare rigores, Cui firmam virtus inclita vim tribuit, Qui sapit, et constans urget quod promere caepit, Illius cingat pulchra corona caput.
Risposta d‘ un Pastore ad una femmina poco bella troppo occupata ad abbellirsi . Il pastorel Carino ogni pensiero Posto in un Capro avea di negro vello, Che di sua greggia era il più forte, e snello, Ed ogn’altro vincea col corno altero. Pazzerel gli era intorno il giorno intero , Per farlo bianco , e renderlo più bello: Spesso il lavava a un limpido ruscello, Ma lavandolo più, lo fea più nero. Clori, che giunse, e rimirollo attenta Disse: quest’ opra tua nulla ti frutta , Perchè il Capro più nero ognor diventa, Il Pastor le rispose: e tu ben tutta Stai la mattina ad abbellirti intenta, Pur ti veggo ogni dì sempre più brutta .
Carini quo non aderat przstantior alter 70 In grege , Carini maxima cura caper Ludebat cornu insignis, saltuque procaci. Insanus tota pastor adesse die Tam dulci capro, fluvioque lavare solebat Nigrantis pellem , nigra sed usque magis Lana fuit capri. Cloris dum talia cernit, Nel peragis, dixit, fit magis ipse niger. Tu vestem toto componis mane, comamque Pastor ait, forma sed minus usque places. (71)
Di Eustachio Manfredi
Per la professione d' una Monaca. Qual' uom, che per trovar scoscesa, e torta La via, pur non s' arresti, e il cammin segua, Perchè speme l' aita , e lo conforta A gir fin là, dov' il sentier s' adegua; Così costei, non perchè dura ha scorta Sua grande impresa, al buon desir fa tregua , Ma si forte ei la preme, e la trasporta, Che al fin da gli occhi altrui pur si dilegua. Gran tempo è già, che generosa il piede Pose , ov’ altri smarrirsi ha per usanza, E rare pel sentiero orme già vede; Pur poco quel, che scorse, e quel che avanza Poco ella stima ancor, se al desir crede; Sì dolce de la meta è la speranza.
Aede sua quandoque procul salebrosa viator Ut loca conscendit, nec revocare gradum Cogitur, emineat quamvis mons arduus, et quas Optat adire plagas, nocte dieque petit; Femina sic duro non haec defessa labore Incoeptum validis viribus urget opus. Tam cito progreditur quo tramite pergere coepit, Ut praereptam oculis cernere non liceat Illa viam subiit , fuerat quae cognita paucis, Et jam rara pedum signa relicta notat. Tum lustrata viae pars illi parva videtur, Tum pars parva viae, quam superesse videt. Indulget votis audax, atque ardua spernit Nil dulci meta dulcius esse putans.
Se sia più malagevole mantenersi l’ altrui amore, che aquistarselo problema proposto nell' Accademia de' Gelati . Storge ilbuon cacciator da sua capanna Augelin vago, e vuol' uscirne in traccia, E dietro a lui, ch' errando oltre si caccia, Per dura alpestra via suda, e s' alfanna. E tal con l' occhio il siegue, e si procaccia Oprando or laccio,or rete , or vischio , or canna , Che pure al fin lui mal’ accorto inganna , E lieto l’imprigiona, e il piè gli allaccia. Ma sì con unghia, e rosrro ei s' affatica, Che sciolti i nodi, e rotto il carcer tristo, Batte le penne inver la selva antica; E il meschin piagne, troppo tardi avvisto , Che sua preda serbar cura, e fatica Più grave era per lui del primo acquisto.
Pulchram venator volucrem dum prospicit, illam Vult capere , et tecto sedulus egreditur. Illa fugit, profugam sequitur tamen ille, locumque, Quem petiit, cupido detegit intuitu. Sudat sollicitus montis per devia pergens, Et visco, canna, retibus, aut laqueis, Donec captetur, salientem decipit; haerens Implicito tandem subsidet illa pede. Vincula sed rostro diffringit, et ungue , nemusque Antiquum penna praepete tuta petit. Major erat retinere labor, quam quaerere praedam;(72) Nunc hoc, sed sero, dum, videt ille , gemit.
Sentimenti di stima verso una Donzella. Vaga Angioletta , che in sì dolce, e puro Leggiadro velo a noi dal Ciel scendesti, Ed or beando vai quest' aure, e questi Colli, che di tal don degni non furo; Per quella man, per quelle labbra io giuro, Per quei tuoi schivi atti cortesi, onesti, Per gli occhi, onde tal piaga al cor mi festi, Che già morronne, e sorte altra non curo; Sebbene gelosia del suo veneno M’ asperse, mai non naque entro il mio petto Pensier , che al tuo candor recasse oltraggio; E se nube talor di reo sospetto Alzarsi osò, per dileguarla appieno Del divin volto tuo bastò un sol raggio.
O quae venisti formae celebranda nitore , Ceu nube, aut velo corpore amicta latens Ad nos de caeli regionibus , alma puella , Hos modo quae colles, haec modo rura beas, Ah rura, et colles non tali munere dignos , Ipse per os pulchrum , juro, tuasque manus , Perque oculos , vocemque tuam, morumque decorem, Fecisti intuitu vulnera tanta tuo, Ut moriar certe, nec sit mihi vivere gratum. Sed me quantumvis torserit acer amor, Ullam non tribui labem tibi criminis unquam, Vel si mens aliquid visa timore fuit, Mox frontis lux ista metum cogebat abire: Sic nebulae fugiunt, sic levis umbra fugit.
Scelta dei Sonetti pubblicati per la morte dell' Abate Francesco Puricelli.
Di Arsillo Calavriense P. A. Se perchè nostro duol si tempri in parte,
Ut quaedam dolor accipiat solatia noster,
Sonetti Per la morte d' Eustachio Manfredi
Atelmo, o sia il Marchese Ubertino Landi. Dov' è Mirtilo, ed Aci? Invano ognora
Acis ubi est? Mirtilus ubi? me vana cupido
Cluento Nettunio, ossia Arciprete Gierolamo Baruffaldi. Questa eccelsa Piramide, ch' io pianto Sul destro fianco de l' ingordo Reno, Dove la Città sorge, in sito ameno, Che per scienza è gloriosa tanto; Io quì innalzo a questo fiume accanto, Per suo dispetto, e suo terror non meno, Che per su' eterno insuperabil freno Da rattemprar le antiche furie alquanto. Aci coll' ombra sua, che già disperse Quest' Acque, altre fiate, e che da pria L' incostanza di lui vinse, e scoperse; Far potrà, che qualor nuova follia Lo prenda, le pupille in lei converse Freni 'l su' orgoglio, e al Mar s' apra la via.
Hic ubi Palladijs studijs urbs inclita surgit Ad Rheni ripas hanc ego pyramidem Constituo, ponat quae frena voracibus undis. Hanc vinclis olim presserat Acis aquam. Illius hanc solum nomen nunc frenet; in aequor Illius audito nomine Rhenus eat. 90
Avertenza del traduttore.

Avendo io fatto la scelta dei sonetti qui tradotti senza aver tralasciato di stamparne l' originale Italiano, ho ben potuto indirizzare agli Italiani in lingua Italiana il frontispizio, e la prefazione.

Adnotationes. (76) Hic funebria quaedam subjunxi; sed nemo propterea judicet, id mihi ingenium esse, ut funebria caeteris anteferam. Accidit enim , ut Eustachii Manfredi, et Francisci Puricelli scripta legens inciderim in ea, quæ vates aliquot horum in morte conscripserunt, ex quibus ea jure merito non esse prætermitenda duxi quae poterant elegantiae causa placere.
Ex versibus Antonii Sivrich quaedam alia.
Ad praestantissimam pulchritudine feminam. Si grajas inter pictor te forte puellas Vidisset Grajus; (a) sufficit ista mihi; Non alia est pulchri pictor dixisset imago; Haec est ipsa Venus, pulchrior aut Venere. Notum est, grajum pictorem, cum pingere Venerem vellet, multas pulchritudine praestantes puellas inspicere voluisse, ut ex tot pulchris unum aliquid pulcherrimum effingeret.
Ad eamdem. Forte aliam post plura parem tibi saecula finget; At natura nequit fingere quid melius.
In ima reductae vallis parte locus erat protensa rupe tectus a vento pluviisque tutus. Qui Phillidem huc adduxerat, ut improvisam insurgentis nimbi vim evitaret, humum pedo signavit inscribens epigramma, quod sequitur. Phillidis hic maneat signatus nomine pulvis; Cura sit, has, hospes, non violare notas. His euri parcent, his te quoque parcere fas est; Ni vento, ac nimbis saevior esse velis.
Quid rarum florem carpenti nymphae Pastor dixerit. Carpenti nymphae rarum sub gramine florem Terra novos flores dat tibi pastor ait.
Ad speciosam feminam sine naevo depictam, qui naturae dono faciem illius pulcherime exornabat. Luminibus careat quisquis te pinxit , et istum Non pinxit naevum , quem venus ipsa dedit.
Ad puellam, quae joci causa floscolum labiis aprehensum gerebat. Non satis est pulcher, tam pulchro dicere ut ore Enatum florem, quem geris ore queam. (a) Sive. Non satis est pulcher: labiis ut dicere natum Ipse tuis florem, quem geris ore, queam.
Il passeggio di Savioli Già già sentendo all' auree Briglie allentar la mano Correan d’Apollo i fervidi 4Cavalli all’oceano. Me i passi incerti trassero Pel noto altrui cammino, Che alla città di Romolo 8Conduce il pellegrino. Dall’una parte gli arbori Al piano suol fann’ombra, L’altra devoto portico 12Per lungo tratto ingombra. La tua, gran padre Ovidio, Scorrea difficil arte, Pascendo i guardi, e l’animo 16Sulle maestre carte; Quando improvviso scossemi L’avvicinar d’un cocchio, E ratto addietro volgere 20Mi fece il cupid’occhio. Su i piè m’arresto immobile, E il cocchio aureo trapassa, Che per la densa polvere 24Orma profonda lassa. Sola su i drappi serici Con maestà sedea Tal che in quel punto apparvemi 28Men donna assai che Dea. Più bello il volto amabile, Più bello il sen parere Fean pel color contrario 32L’opposte vesti nere. Tal sul suo carro Venere Forse scorrea Citera, Da poi che Adon le tolsero 36Denti d’ingorda fera. La bella intanto i lucidi Percote ampi cristalli; L’auriga intende, e posano 40I docili cavalli. Tosto m’appresso, e inchinomi A quel leggiadro viso, Che s’adornò d’un facile 44Conquistator sorriso. Amor, di tua vittoria Come vorrei lagnarmi? Chi mai dovea resistere, 48Potendo, a tue bell’armi? In noi t’accrebbe imperio La destra man cortese, Che mossa dalle Grazie 52A’ baci miei si stese. Risvegliator di zefiri Ventaglio avea la manca, Onde solea percotere 56Lieve la gota bianca. Ne’ moti or lenti, or rapidi, Arte apparía maestra; Lo Spettator dell’Anglia 60Così le belle addestra. O man, che d’Ebe uguagliano Per lor bianchezza il seno, Ove fissando allegrasi 64Giove di cure pieno. Forse sì fatte in Caria Endimíon stringea, Quando dal carro argenteo 68Diana a lui scendea. Quei vaghi occhi cerulei Movea frattanto Amore; Rette per lui scendevano 72Le dolci note al core. Come potrei ripetere Quel ch’ a me udir fu dato? Dal novo foco insolito 76Troppo era il cor turbato.
Errata.

pag. 17. Vers. 21 jacrymae lege lacrymae


Croatica et Tyrolensia